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LA SFIDA |
Siamo, come collocazione temporale, nella metà degli anni ’60 del secolo scorso.
Il boom economico ha ormai investito quasi tutta la società italiana.
L’inurbamento esalta il rapporto tra abitanti e mq di superficie.
Lo sviluppo edilizio, in ogni campo, ne rappresenta il fiore all’occhiello (?), specialmente nelle opere pubbliche che devono dare risposte al boom demografico concentrato.
La crescita economica, gli elettrodomestici alla portata di tutti, il nuovo all’orizzonte, il moderno nella cultura, il “giovane” come aggettivo principale, il futuro come orizzonte positivo; investivano la società tutta tanto che tutte queste realtà si percepivano nelle costruzioni, si leggevano nelle cose, nei colori, nei materiali e si respiravano nell’aria.
In questo clima di totale trasformazione sociale si costruiva una nuova sede scolastica con aule grandi spaziose e luminose, grandi vetrate, scale in marmo, pavimenti in marmo ed ampi spazi interni. Era, ed è ancora, un parallelepipedo con nastri di finestre su tutti i lati perché, come contenitore culturale, potesse, con facilità, espandere all’esterno il suo frutto.
Quell’anno cambiammo insegnante di progettazione con la nomina di un giovane appena laureato in architettura all’università di Firenze.
Era alto, robusto, calvo, con uno sguardo burbero, per nascondere la sua bontà d’animo, con le mani grandi dentro le quali la matita si perdeva tanto che il segno sembrava uscisse dal vuoto generato dalle tre dita che la contenevano. Era giovane e con tono di voce perentorio tanto che le parole delle lezioni sembravano incidersi e scolpirsi nell’aria statica, calma e silenziosa dell’aula scolastica. Il religioso silenzio dell’aula scolastica veniva interrotto solo dalle correzioni, a voce alta, che faceva girando tra i banchi dando a tutti gli altri, così, la possibilità di verificare eventuali errori.
Da subito iniziò ad utilizzare un metodo didattico nuovo pretendendo che fossimo, noi allievi, studenti attori del processo educativo e non semplici spettatori passivi del dialogo educativo.
E’ bene ricordare che eravamo negli anni ’64 – ’65.
Questo suo metodo mi piacque talmente tanto che sentendo di poter esprimere le mie idee mi dedicai a svolgere, con grande trasporto, quello che lui ci chiedeva lavorando intensamente non solo a scuola ma anche a casa sentendo l’ambiente scolastico vicino e non ostile.
Alla verifica conclusiva del primo trimestre non volle credere che quegli elaborati erano stati prodotti da me tanto che, dopo avermi richiamato e deriso davanti a tutti i compagni generando un profondo stato d’ansia, mi mise alla prova chiedendomi di fare alcune verifiche in poco tempo ed in sua presenza.
La prova dimostrò che lui aveva ragione ed io avevo barato per cui, al primo trimestre, mi trovai tre sulla pagella.
Attraversai, in silenzio, un lungo periodo con un continuo conflitto interiore diviso tra l’abbandono dello studio e la voglia della rivincita.
Nacque, in questo periodo, il desiderio della sfida.
Alla fine decisi, in completa solitudine, (perché sapevo che i miei genitori avrebbero avallato il giudizio dell’insegnante) per la sfida convinto che la mia vittoria, come studente attore, (il ’68 –quello vero- era nell’aria) consisteva nel far ammettere all’insegnante l’errore di giudizio.
Allora mi feci spostare su un banco della prima fila –che nessuno voleva occupare- proprio di fronte alla cattedra e cominciai a lavorare con tanta rabbia dentro, in sua presenza senza chiedere mai nulla. Non avendo disponibilità economiche cominciai a frequentare la biblioteca con letture extrascolastiche per acquisire certezza dei concetti e sicurezza nelle cose che pensavo e facevo. Dopo alcune lezioni cominciai a notare che sempre più spesso mi si avvicinava e guardava, in silenzio, quello che facevo.
Così continuai per tutto il secondo trimestre a lavorare, sia a scuola che a casa, con trasporto, impegno, rabbia e tanta voglia di rivincita.
A conclusione del trimestre ritirò gli elaborati e li chiuse in un armadio senza dire nulla.
Alla consegna delle pagelle, lette e commentate in classe dal preside, fui colpito dal suo voto che era diventato sette.
Con la stessa lena e lo stesso impegno continuai la sfida anche durante l’ultimo trimestre.
Il terzo trimestre si concluse in modo positivo (il voto non lo ricordo ma doveva essere otto o nove), ma quello che ricordo come un momento di rivincita e di liberazione fu quando mi chiamo alla cattedra e mi disse con il suo perentorio tono di voce davanti a tutti i compagni: “Scusami se mi sono sbagliato su di te nel primo trimestre”e, rivolto alla classe: “Vedete anche gli insegnanti possono sbagliare”.
La sfida era stata vinta.
Inoltre mi sono appassionato a quel suo modo nuovo di porgere la materia che l’ho fatto mio tanto da utilizzarlo come metodologia per una ricerca didattica che conduco da anni.
Il metodo dello “studente attore” mi ha accompagnato in tutti questi anni ed ancora mi guida nel mio lavoro di insegnante.
Il
ponte robusto e indistruttibile era stato costruito con quella perizia da
“capomastro” necessaria per il lavoro dell’insegnante.
Ho però un grande rammarico ed una grande tristezza nel cuore.
Avrei voluto tanto discutere con lui dei testi che stavo preparando per renderlo partecipe, ma non è stato possibile a causa di una grave e lunga malattia che lo colpito portandolo via, ancora molto giovane, nel mese di luglio del 2004, mentre preparavo i testi che sono stati pubblicati ad ottobre dello stesso anno.
Peccato che gli incroci dell’esistenza non hanno permesso una frequentazione abituale perché, dopo il diploma e la laurea, il lavoro mi ha portato lontano e solo raramente ci siamo confrontati.
Data 05.11.2008