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La SCUOLA RURALE DEL DOPOGUERRA |
Siamo nella prima metà degli anni ’50 del secolo scorso.
Nell’Italia permanevano ancora ferite fisiche, segnali economici e tracce morali lasciate della guerra da poco finita.
Il luogo è un piccolo paese agricolo del profondo Abruzzo posto ai piedi del Gran Sasso.
In un piccolo borgo rurale un’unica stanza, di forma pressoché rettangolare con i muri in pietra, il tetto in legno e qualche coppo rotto, la porta d’ingresso al piano rialzato in doghe sconnesse, il pavimento scomposto in mattoni di argilla, una piccola finestra sul fondo con il vetro tremolante al vento e fermato mediante pezzi di carta inseriti a pressione nell’incavo ad u del telaio, sull’esterno due piccole ante realizzate con tavole grezze non perfettamente piallate tenute da due telai incernierati al muro.
Questa era l’unica aula della mia scuola.
Era un’aula perché dotata di una piccola lavagna fissata al muro, di un piccolo tavolo con funzione di cattedra per la maestra e banchi a monoblocco, per due studenti, con sedile e schienale fissi formante un angolo retto, collegati mediante la pedana inferiore alla struttura portante il leggio frontale ribaltabile provvisto, nella parte superiore, del foro per il calamaio dell’incavo per contenere l’asticella del pennino, la matita e la gomma. Completava l’arredo una piccola stufa in terracotta a forma di parallelepipedo dalla cui faccia superiore usciva un tubo metallico formante la canna fumaria che prima di bucare il tetto percorreva un tratto di parete per distribuire il calore nella piccola stanza. Attorno alla parte verticale del tubo, ad una certa altezza, era stato fissato un anello in ferro dal quale pendevano verghe metalliche mobili che venivano posizionate in orizzontale, a raggiera, quando era necessario stendervi i nostri abiti bagnati per farli asciugare.
Quanto descritto era l’aula per una numerosa pluriclasse di scuola rurale che comprendeva alunni dalla prima alla quinta.
Quando la temperatura era normale si andava a scuola scalzi, o con le scarpe a tracolla quando il tempo minacciava pioggia, portando un libro e due quaderni, uno a righi e l’altro a quadretti.
Quando la temperatura si faceva rigida e cominciava il freddo i materiali scolastici di cui sopra venivano integrati con tre, quattro, tronchetti di lagna che a gruppi di tre, quattro studenti a rotazione portavamo in classe per alimentare la stufa e non stare fermi ed al freddo. La legna eventualmente non consumata veniva accatastata, con cura, a fianco della stufa, in un piccolo spazio tra essa e il muro, come riserva per i giorni più freddi o per sopperire alla dimenticanza o all’assenza da parte di qualcuno del gruppo di turno.
In aggiunta al caldo della stufa c’era, poi, quello animale che proveniva dalla stalla sottostante l’aula scolastica.
Se veniva sete era necessario uscire dalla stanza e recarsi a bere in una pubblica fontana sita, comunque, a breve distanza dall’aula.
Se necessitava di andare al bagno, esternamente all’aula era stato fabbricato un unico piccolo gabinetto con il vaso alla turca. Per lo scarico vi erano stati collocati due secchi d’acqua da riempirsi, dopo l’uso, nella vicina fontana di cui sopra.
Per arrivare a scuola dovevo percorrere circa due chilometri a piedi di una mulattiera sassosa e sconnessa attraversando un ruscello il cui ponte era costituito da due tavole accoppiate e traballanti.
Avevo sei anni e frequentavo la prima elementare.
Qui e così è cominciato il mio lungo cammino nel mondo della scuola che sto ancora percorrendo.
Data 07.09.2008
Elio Fragassi